martedì 3 luglio 2007

CONCEPT: "CITTA’ INTEGRATA, IN CIVILTA’ INTEGRATA"

…“L’individuo è pronto a vivere in una “Città Integrata”? L’uomo è realmente disposto ad integrarsi in essa senza perdere la propria identità?”

Dopo la lettura del libro “introduzione alla rivoluzione informatica in architettura” del Prof. Saggio, mi sono posto delle domande a “scala maggiore”, non più ad una grandezza individuale come ad esempio su come poteva cambiare il mio “mondo”, la mia vita, dopo aver preso atto di questa nuova era, ma su come mi sarei dovuto rapportare con il resto del mondo, visto che le barriere tra gli individui saranno sempre più leggere. Nella città, nella vita di tutti i giorni mi sono reso conto che “le differenze” con gli altri possono essere molteplici (vivo all’Esquilino, quartiere caratterizzato dalla multirazialità) ed il fatto di non riuscire a comunicare o non volerlo fare, perché ciò che non si conosce fa paura. I primi anni di università, molto ingenuamente pensavo che un urbanista o un architetto potesse risolvere anche i problemi sociali della città, semplicemente prendendone conoscenza ed attuando delle strategie per risolverli (utopia). Dopo aver aperto gli occhi, ho capito delle sue reali possibilità, della sua umanità e non della sua onnipotenza. Con la presa di coscienza dell’avvento della “rivoluzione informatica” incomincio a pensare che: l’architetto armato di queste nuove tecnologie non può sostituirsi al Divino, ma può fare molto di più per migliorare questa città.
Il mio concept si muove in questa direzione, ovvero propongo di approfondire la tematica di integrazione della città in riferimento al tessuto sociale. Ridare identità a parti del territorio dimenticate o “al margine”, intervenendo con strutture di impatto, che diventino punti di aggregazione, di interscambio, con l’utilizzo delle nuove tecnologie.

Commento a "luna meccanica"

Riprendendo le parole del Prof. Saggio: il museo Guggenheim è una architettura che scende dal piedistallo (come quasi tutte le opere di Gehry) per confrontarsi direttamente con lo spazio urbano; contesto non sempre consolidato e da scardinare, come ad esempio succede a Praga, dove il tema d’angolo diviene il pretesto per mettere in crisi il sistema blocco/isolato, ma anche il marasma di quello che Gehry definisce cheapscape. Il paesaggio povero, degradato, isolato, marginale, dove nessuno vuole andare, è proprio qui che il nostro trova le risorse per costruire vere e proprie opere uniche. L’esempio più fulgido è proprio il museo di Bilbao, che è in perfetta sintonia con l’ambiente circostante, è in continuità con lo spazio. L’opera di Boccioni ha in sé l’idea ispiratrice di questa nuova concezione di architettura-scultura, un dinamismo nuovo che sradica l’edificio dalla sua dimensione canonica per proiettarlo in quella di pura energia. L’opera di Gehry, così come quella di Boccioni, è pervasa da una potenza che non conosce precedenti. Le masse, che si agitano e che arrivano a modellare persino lo spazio circostante, sono vive, sono muscoli contratti o slanciati nello sforzo agonistico, sono protuberanze organiche che rifiutano le leggi newtoniane della terra, sono elementi naturali che protendono verso il divino. La luce non si precipita sulle superfici per rifrangersi, bensì scivola su di esse, giustificando la loro essenza come di velluti dispiegati dal vento.
Da tutto ciò si giustifica il ruolo di questo museo quale cattedrale della cultura moderna, ma anche la presenza della torre che merita di esistere tanto quanto il campanile di Giotto a Firenze. Questi non sono elementi fondamentali per la segnalazione e l’identificazione di una meta, la torre di Bilbao è la bandiera conficcata nel paesaggio desolato che corre lungo gli argini del fiume a dichiarare la conquista di questa luna meccanica.
Chi è convinto che il Guggenheim è solo forma rimane disilluso alla prima visita: esso è una macchina perfettamente funzionante, quasi senziente in quanto determina precise relazioni tra il contenitore e la funzione contenuta, ma anche tra queste e lo spazio esterno che è misurato tanto quanto quello interno. L’aspetto che sconcerta è che anche essendo macchina, ovvero oggetto tecnologico-industriale, ha rifiutato volontariamente il processo di serializzazione imposto ai prodotti industriali.
Nonostante tutto c’è ancora una precisazione da effettuare: le radici della conformazione dinamica dello spazio sono più antiche del periodo futurista durante il quale operava Boccioni. Esse sono da ricercare nell’operato di uno dei più grandi architetti della storia italiana, ovvero Francesco Castelli, maggiormente conosciuto come Borromini. Lui ha posto le basi utili e fondamentali per gli sviluppi moderni ai quali oggi assistiamo. Le sue opere maggiori sono pervase da un senso di continuità, energia e movimento tanto che l’occhio osservatore non trova riferimenti sui quali soffermarsi, ma ruota insaziabilmente su tutte le superfici. Le forme determinate da Borromini modellano lo spazio sia interno che esterno, hanno la potenza di esplodere o implodere nel cambio di un ritmo che può essere letto su più livelli: è quello che ad esempio accade a Sant’Ivo. Lo slancio, l’energia, la potenza, la dinamicità, la velocità, sono tutti concetti fondati da questa figura fondamentale del ‘600. A distanza di quattro secoli il museo Guggenheim di Bilbao è la deflagrazione dei concetti barocchi condensati negli anni e tanto ben espressi dalle sculture di Boccioni. Questo coraggio è frutto di un sapiente uso dell’Information Technology, non comune mezzo per disegnare, ma simulacro di nuovi fondamenti per l’Architettura moderna.

Commento a "la via dei simboli"

La professionalità trova elogio nel massimo riconoscimento dell’ attribuzione di una propria opera come simbolo.
Per un progettista riuscire a trasferire in una architettura il simbolo di una nazione come nel caso di Utzon a Sidney è sicuramente il miglior auspicio.
Dall’articolo La via dei Simboli del prof Antonino Saggio
si evince una forte positività nell’osservare e commentare che le architetture ultimate negli anni scorsi da Piano ad Amsterdam e da Ghery a Bilbao sono sulla scia di Utzon .
La monumentalitá di questi edifici é evidente come anche la loro collocazione studiata, come ad esempio del Guggenaim di Bilbao, in relazione con il fiume ed in una posizione strategica, da fulcro, per la rivalutazione di una area della cittá dimessa.
Molti architetti nell’adempiere i propri compiti di progettisti possono vedere riconoscere nel loro operato da parte della collettività il simbolo.
Oltre al grande intuito del progettista affinché una architettura venga riconosciuta come simbolo deve avvenire un processo di accettazione da parte della cittá e degli abitanti.
Mi viene spontaneo riflettere su quanto sia determinante per un'opera architettonica comunicare e diventare riconoscibile punto di riferimento.

lunedì 7 maggio 2007

“HyperArchitettura – Spazi nell’età dell’elettronica”


RECENSIONE del libro di Luigi Prestinenza Puglisi, Testo & Immagine, 1998

Il titolo identifica efficacemente il tema analizzato e la frase che precede l’inizio fa capire come l’autore intende affrontarlo. In maniera analitica e costruttiva.

“My interest is in the future because I am going to spend the rest of my life there.”
(Charles F. Kettering)

Il libro è suddiviso per caratteristiche dell’”hyperarchitettura” che vengono confutate dall’autore sottoponendo ad analisi alcuni progetti realizzati da vari architetti ed alcune loro teorie.

Nel 1971 si sente già l’aria di una nuova era, sono prefigurati i concetti di sensorialità e di multimedialità nel Centro Pompidou; nello ZKM predomina l’immateriale, gli oggetti si smaterializzano e il contenuto subentra al contenitore. Nel 1992, in riferimento alla Biblioteca Universitaria di Parigi, Ito dice “la mia, è l’antitesi dell’architettura monumentale, degli edifici che vogliono vivere per l’eternità”, egli lavora spesso sull’immagine svuotata di ogni significato, uno stadio che ha raggiunto i sensi ma ancora non si è formalizzato nell’intelletto e in cui lo spazio appare non più come il vuoto in cui dimorano i corpi solidi, ma come il medium attraverso cui si diffondono le informazioni. La nuova architettura è l’arte dell’età dell’elettronica, cioè del computer e dell’informatica. L’elettronica è caratterizzata da tre parole chiave: Proiezione, mutazione, simulazione.
Eisenman denuncia nella House IV la preferenza per case fredde, indifferenti alle funzioni, secondo lui l’architettura, esattamente come un’opera d’arte concettuale, deve produrre straneamento. Wittgenstein vede la casa come “un tempio che ospiti le passioni, senza che interferisca con queste”, ovvero una casa che ospiti la vita, ma non abbia nulla a che vedere con essa.
Il concetto di mutazione viene poi sviscerato in più parti: la trasformazione, l’atomizzazione, la logicizzazione, la metaforizzazione.
Gli oggetti perdono la loro materialità e diventano informazioni. La forma si dematerializza, la costruzione perde solidità. L’involucro diventa sempre più secondario, mentre acquistano peso le prestazioni, i sistemi di rilavemento, i controlli bioclimatici, i dispositivi tecnici. McLuhan dice: “nell’edificio il sistema nervoso sta prendendo il sopravvento sull’ossatura e sulla muscolatura”.
La nuova architettura si pone con la natura in un rapporto non più di diversità, ma di integrazione.
L’edificio tecnologicamente avanzato vive di contatti con l’esterno, funziona come una pelle, un sistema nervoso, una membrana, mentre quello tradizionale trova il suo equilibrio nell’interagire il meno possibile con l’ambiente.

Alla fine, il lettore, come l’autore, (con un po’ di malditesta) si troverà in un vortice di domande, che riguardano il futuro. L’informatica con le sua potenzialità, ha aperto davanti a noi nuovi scenari e sta a noi scegliere se esserne protagonista o semplice spettatore.



"CENTRO POMPIDOU A PARIGI"




"Z.K.M."





"BIBLIOTECA UNIVERSITARIA A PARIGI"





"EISENMAN - HOUSE IV"





"WITTGENSTEIN A VIENNA"

AUTORITRATTO

Commento al libro "Introduzione alla rivoluzione informatica in architettura", prof. Antonino Saggio


Il testo è destinato ad un lettore attento alla tematica dell’informazione in rapporto con l’architettura; risulterà di non facile comprensione per i non “addetti ai lavori”.
Il libro parte dalla presa di coscienza di una rivoluzione che è in atto, che abbraccia molti e fondamentali aspetti della vita dell’uomo … la “rivoluzione informatica”. Analizza specificatamente l’evoluzione dell’architettura in questa nuova era, studiandola per categorie a varie scale e porta a riflettere su quale sarà il suo divenire.
Molti sono stati gli spunti per riflessioni personali che poi sono diventati temi di confronto con altri colleghi; come il computer che da una macchina a dimensione individuale, è diventato strumento per interagire con gli altri, si è integrato nelle case e talvolta è diventato addirittura un “confidente”, quasi un “parente”. (alcuni si rapportano con più facilità con un pc che con le altre persone).
Ha cambiato prima il modo di agire e poi di pensare, lo spazio, il tempo, la comunicazione e la vita dell’uomo.
Tra tutti i capitoli, quello che ha suscitato in me più interesse è quello relativo alla “Città”, in quanto sintetizza tutti gli argomenti trattati e ne è la manifestazione nella realtà.
In questo capitolo si ragiona sul ruolo dell’informazione nella nuova fase della ricerca architettonica ed urbanistica. Trovo molto efficace il metodo con cui viene affrontato il tema, poichè è identificativo di una tensione, relativa al cambiamento e che suscita crisi. Fondamentale è l’analisi sull’opposizione “in-between vs in-front”, quando si dice che l’informatica può creare “... edifici interattivi e vivi, reagenti al variare dei flussi e degli stimoli e dei desideri” e che “… il grande cambiamento tra l’era industriale e quella informatica […] pone al centro non più il tipo, lo standard, la serie, il prodotto, lo zoning, ma l’individualità e l’apertura al molteplice, l’inserimento delle ipotesi e non le teorie, la differenziazione e la soggettività dei desideri e dei progetti”.
Premettendo che vivo in un quartiere caratterizzato dalla multirazialità, come l’Esquilino a Roma, le domande che mi pongo sono: l’individuo è pronto a vivere in una “Città Integrata”? L’uomo è realmente disposto ad integrarsi in essa senza perdere la propria identità? Se non si creasse l’humus per far partecipare quelle parti di società che vivono passivamente questa rivoluzione, non si correrebbe il rischio di marcare il contrasto tra queste realtà urbane?